Category Archives: appunti per una rivista

(…) l’Eritrea appare allo stesso tempo lontanissima e vicinissima. Non solo perché gli echi della lotta contro un regime remoto hanno origine nelle nostre città europee, come questi ragazzi e la generazione dei Gabriel e dei D. confermano. Non solo perché, ancora una volta, l’Eritrea è stata la parte d’Africa più a lungo colonizzata dall’Italia appena unificata. I ragazzi lo ripetono costantemente, il colonialismo rimosso è un loro cruccio.
Sara, una delle poche ragazze del movimento, me lo ricorda con un’espressione seria in volto: “Ho l’impressione che l’Italia abbia paura della sua storia. I giovani non sanno che l’Eritrea è stata una colonia italiana, sui libri di scuola ci sono solo poche righe. Soprattutto chi è di Asmara sente di avere un legame con questo paese, ma quando arriva qui non capisce bene dove si trova. Invece di far chiarezza, gli ultimi governi hanno pensato che il modo migliore di risolvere il problema coloniale fosse quello di aiutare i regimi venuti dopo, senza spiegare per esempio perché abbiamo collaborato con Gheddafi per reprimere i viaggi dei migranti”.
Libia, Eritrea, Somalia. I ragazzi dell’Eritrean Solidarity Movement for National Salvation lo chiamano il “triangolo italiano”. Il “triangolo italiano”, mi ripetono mentre passeggiamo lungo il corso principale (di Lampedusa, durante la commemorazione della tragedia del 3 ottobre 2013 all’Isola dei Conigli), schivando capannelli di uomini e cani sonnolenti, ha a che fare con la nostra storia rimossa, con ciò che è stato edificato dopo quella rimozione e con gli enormi buchi neri che oggi si sono creati in quei paesi.

da La frontiera, Alessandro Leogrande, Feltrinelli

(il corsivo è mio)

Cara Signorina Monroe

690 Asylum Avenue
Hartford, Conn.
4 Dicembre 1935

Cara Signorina Monroe,
sono piuttosto scosso dalla sua nota a proposito di Idee dell’ordine. E’ stato come se un ricco zio fosse morto lasciandomi tutto. Comunque, l’ho portata con me a casa la scorsa notte e l’ho letta attentamente. E’ molto azzeccata, e le sono grato, come lo sono stato in così tante occasioni in passato.

(…)

Wallace Stevens

Ed ecco la nota di Harriet Monroe sul numero di dicembre 1935 di Poetry, pp. 153-157

sul diario

E veramente la struttura del diario consente respiro e naturalezza; essa cresce di giorno in giorno come un albero, permette di seguire il pensiero nel suo formarsi, senza dare niente per definito, senza correggere le contraddizioni. Consente quella continua attività di risposta alla vita che ci fa resistere a ciò che accade poiché mentre si vive e crediamo di essere sempre la stessa persona il mondo muta e noi senza pausa mutiamo in esso; non perché si invecchi e si cambi idee e usi, ma perché muoiono via via le persone che ci amano, in cui ci specchiamo per conoscerci, e con ognuna di loro muore quella parte di noi che esse vedevano. Gran parte del lavoro della vita consiste nel resistere a queste finestre che si accecano; nel costruire la nuova individualità necessaria alle persone che ora ci vedono. Nel suo continuo alternarsi di lamento di affermazione il diario testimonia e onora questo lavoro.

dalla  Introduzione di Bruna Cordati a: Florida Scott-Maxwell, La misura dei miei giorni, Marietti, 1998

brevimiranza 2

Adriano Grande non è un poeta di molto valore, ma val meglio di Quasimodo, checché sembri credere Betocchi. E certi giovani (Sinisgalli, De Libero, ecc) continuano la perniciosa opera di Quasimodo nella loro passiva idolatria della musica verbale, e sull’insufficienza di spina dorsale che distingue la loro poesia.

da una lettera di Aldo Capasso a Luigi Fallacara, senza data ma risalente più o meno al 1937

brevimiranza n.1

I vari Betocchi, Vigorelli, Villa si sono dati ad un singolarissimo culto del nome Montale (dico singolarissimo, perché si sta perdendo il senso delle proporzioni. Nessuno sa meglio di me che ci sono -con un non lieve residuo intellettualistico- cose molto belle negli Ossi di seppia. ma è altrettanto vero che, da quando scrisse Arsenio, Montale, come poeta è finito. La sua seconda raccolta, La casa dei doganieri, è totalmente negativa, e peggio che mai le cose posteriori!). Ungaretti vien ridotto ad annunziatore di una poesia, che in Montale è totalmente matura!
Io sono ignorato, e Betti attaccato. Ciò che Montale deve alle “petrosità” di Sbarbaro, e anche di Rebora, è taciuto. Di Saba non si parla più,è in fondo ignorato anche lui. Moscardelli, la cui ascesa è continua, è ignorato del pari. Onofri? Ignorato anche lui. La poesia moderna si chiama Montale!

da una lettera di Aldo Capasso a Luigi Fallacara del 1937

 

tu che mi guardi, che mi parli

è come se ci fosse nell’attività del pittore un’urgenza che supera tutte le altre. Egli è là, forte o debole nella vita, ma sovrano incontestato nella sua ruminazione del mondo, senz’altra “tecnica” tranne quella che i suoi occhi e le sue mani conquistano a forza di vedere, a forza di dipingere, accanendosi a trarre da questo mondo, in cui risuonano gli scandali e le glorie della storia, delle tele, che aggiungeranno ben poco alle collere e alle speranze degli uomini, e nessuno trova niente da ridire.

(…)

Il mio movimento è il proseguimento naturale e la maturazione di una visione. Io dico che una cosa è mossa, ma il mio corpo si muove, il mio movimento si dispiega; non avviene nell’ignoranza di sé, non è cieco a se stesso, s’irradia da un sé…

(…)

Il pittore vive nella fascinazione. Le sue azioni più proprie – quei gesti, quei segni di cui egli solo è capace, e che saranno rivelazioni per gli altri, che non hanno le sue medesime mancanze – gli sembrano emanare dalle cose stesse, come il disegno delle costellazioni. Tra lui e il visibile, i ruoli inevitabilmente si invertono. Ecco perché tanti pittori hanno detto che le cose li guardavano, e André Marchant, dopo Klee: “Più volte, in una foresta, ho sentito che non ero io a guardare la foresta. Ho sentito, certi giorni, che erano gli alberi che mi guardavano, che mi parlavano… Io ero là, in ascolto… Credo che il pittore debba lasciarsi penetrare dall’universo, e non volerlo penetrare… Attendo di essere interiormente sommerso, sepolto. Forse dipingo per nascere.”

(…)

Essenza ed esistenza, immaginario e reale, visibile e invisibile: la pittura confonde tutte le nostre categorie, dispiegando il suo universo onirico di essenze carnali, di rassomiglianze efficaci, di significazioni mute.

da L’occhio e lo spirito, Maurice Merleau-Ponty, SE Studio Editoriale, trad.di Anna Sordini

la scrittura (la lettura, l’arte), l’acqua e la pietra

Richard Diebenkorn Horizon ocean view

Nel fluire del fiume la scrittura è pietra.È l’incrostarsi dell’acqua in cui scorre la vita. Gelida e lucente scaturisce dalla roccia, rapida come una stilettata. Il tempo l’ingromma e l’anagramma in stalattite. Il linguaggio, la lenta concrezione del carbonato di calcio che trasforma l’acqua in pietra.

(…)

La superiorità del narrare rispetto al vivere è che la narrazione stringe, consegue, morde, giunge a buon fine o mal fine, laddove la vita si disperde, si frantuma, sfuma e sfiuma…

da Controcielo, Romanzo grottesco, Mauro Marè, All’insegna del Pesce d’oro di Vanni Scheiwiller

to be or not to be

to be or not to be Lubitsch

Così Elias Canetti ricorda la prima volta in cui aveva ascoltato Kraus in occasione di una conferenza al Konzerthaus:

Un ometto piccoletto piuttosto mingherlino, con un volto affilato di inquietante vivacità, che mi disorientò (…). La voce, tagliente e irritata, dominava facilmente la sala con bruschi e frequenti salti di volume (…). Il fatto incomprensibile e indimenticabile – indimenticabile anche se avessi vissuto trecento anni – era che (la voce di Kraus al min.8.22) si imponeva come una legge di fuoco: si irradiava, bruciava e annientava (…) e il manifestarsi di questo castigo sterminatore, compiuto pubblicamente, diffondeva un tale orrore e una tale violenza che nessuno riusciva a sottrarvisi…

Chiunque abbia ascoltato la voce di Kraus nelle registrazioni esistenti avrà potuto notare una simile terrificante esperienza. Il fatto è che, dopo la Seconda guerra mondiale, è ormai un’altra voce, raggelante, che ascoltiamo attraverso la sua, una voce che ha preso la sua maschera. Il Führer parla con la voce di Karl Kraus. Il giovane vagabondo, studente di belle arti negli anni viennesi, aveva avuto la curiosità di andare ad ascoltare le sue conferenze? Diciamo piuttosto che, proprio come a Monaco avrebbe appreso ad atteggiare il corpo, a controllare ogni espressione e ogni gesto dalle fotografie che Hoffmann gli scattava, il piccolo austriaco dal ruvido tedesco e dalla dizione grossolana avrebbe imparato a dosare la propria voce sino a riprodurre il più straordinario prodotto dell’arte oratoria dell’epoca, copiando il fraseggio di Kraus, le sue sincopi, i suoi modi taglienti e brucianti. Karl Kraus suo malgrado, è divenuto maestro di dizione di Hitler, proprio come, mutatis mutandis, Marinetti, così di buona voglia per parte sua, lo era stato di Mussolini.

da La responsabilità dell’artista. Le avanguardie tra terrore e ragione, Jean Clair, Abscondita, trad.di Stefano Chiodi

 To be or not to be, Mel Brooks