Category Archives: appunti per CAPSULA PETRI

Il ritratto ufficiale (ma anche quello celebrativo/contemplativo)

Eppure il ritratto ufficiale deve insistere su una distanza formale. è questo, e non un’incapacità tecnica da parte del pittore, a far sembrare innaturale e rigido il comune ritratto tradizionale. L’artificialità è insita nei termini stessi che si impongono al vedere: il soggetto, infatti, va visto simultaneamente da vicino e da lontano. Una visione analoga a quella dei preparati sotto il microscopio.

Questione di sguardi, John Berger, Il Saggiatore

E, per uscire dall’arte figurativa, Beatrice di Dante.

Il tempo trascorso da allora è stato piuttosto logorante

Torino, 31 marzo 1942

Cara Filomena,
quest’ultima volta mi sono fermato a Roma abbastanza a lungo e ho pensato che era ridicolo non vedersi affatto come due nemici ereditati e lasciare i nostri saluti a Barberina o ad Antonio. Ma forse questa saggezza un po’ forzata ha ancora una sua ragione e servirà a rimediare a facili errori dell’anno 1941 (questo è il linguaggio a cui ci abituano i troppi giornali sulla guerra). La tua cartolina da Perugia mi ha ricondotto a tempi anche più antichi, a quell’estate di due anni fa in cui non si conoscevano i pericoli futuri e si parlava con eleganza e distacco dei propri problemi personali. Il tempo trascorso da allora è stato abbastanza logorante per il sistema nervoso. Io nutro ora la mia inquietudine di continui progetti e sento sempre più nei limiti esterni alla mia libertà un ostacolo durissimo. Anche tu quando ci siamo lasciati eri piuttosto incline allo spirito catastrofico, ora penso che la tua felice pacatezza romana abbia riguadagnato terreno e mi auguro che divida il tuo tempo fra i vari diritti e i tuoi svaghi personali.

Spero che ci vedremo presto con calma. Un amichevole saluto da,

Giaime

da C’era la guerra. Epistolario 1940-1943, Einaudi, Gli Struzzi, 2000, a cura di Luisa Mangoni

Caro Agafio,
se ti scrivo che l’assenza di libertà fatta subire a tante persone che ho incontrato negli ultimi tre anni mi logora, so che capisci. Sai come’è chiamata l’assegnazione di un centro di accoglienza in Germania? Einweisungsverfügung, cioè provvedimento di internamento: quando l’ho saputo, ho ricordato quel giorno in cui mi dicesti –  commentando i pregi della carta adesiva per risolvere il problema dei pesciolini d’argento – che i tedeschi san bene come uccidere. Le aggressioni del mondo e una certa passività delle persone a cui queste sono indirizzate, mi vuotano: oggi sono un’illettrice o una lettrice intermittente. Due mesi fa sono stata per due giorni ospite senza invito in un centro d’accoglienza in Germania, per fare una visita ad un caro nigeriano espulso dall’Italia. Era il più scuro di quel centro e sono stata testimone di un’esclusione spietata: i compagni di disavventura, tutti di fototipo più chiaro, facevano a gara per occupare la posizione di penultimi, conquistata pulendo gli spazi comuni al suo passaggio oppure invitandolo a non utilizzare un certo bagno. Avevo sperimentato un’assai più moderata forma di esclusione, quando unico fototipo levantino in una situazione di coabitazione, mi ero accorta di suscitare il disgusto nell’ospite che incappava in un mio capello, rimasto nella doccia come unico monumento ai caduti e ripuliti: grazie a questa esperienza, è stato inevitabile coincidere con il mio caro, con un’intensità tale da arrivare a pensare – al buio e con i rumori provenienti dal corridoio così simili a quelli di un ospedale – al suicidio. Ho abbracciato la segregazione del caro ed ho percorso mentalmente gli ultimi passi di Maslax, il ragazzino che si impiccò al ramo dell’albero dei giardinetti dinanzi al centro di accoglienza a Pomezia. Sono tornata a Roma, proprio grazie al mio amico, che quando parla del suo Dio (che io, atea, non provo ad intaccare con l’etilene della logica) ha gli occhi che virano al blu.

Torna, Agafio: negli ultimi tre anni ho parlato con vittime, aggressori, candidati al martirio o indifferenti. Non so quanto sia felice, quella tua pacatezza, ma ti vorrei presente nella mia vita e se ho l’ardire di chiedere, è perché conosco il piacere della restituzione.

Un Io sovrappeso

Ripassiamo alcuni dei versi iniziali della Commedia: “Io non so ben ridir com’i’v’intrai, /tant’era pien di sonno a quel punto/che la verace via abbandonai” (Inf. I, 10-12). Agire bene significa essere ben svegli e dare realtà al mondo, non separarsi dagli altri, rispettare un nucleo inviolabile, sacro della persona; agire male significa sottrargliela, anche solo per disattenzione o per abbandono al dormiveglia dell’inerzia morale. E la pena è maggiore per chi toglie realtà a una persona cara, a qualcuno con cui abbiamo stabilito un’intimità. Non so se l’ideale della paideia, su cui si edificò la società ateniese e poi l’intero Occidente, si sia esaurito. Certo uno dei suoi compiti primari consisteva nel trasmettere, soprattutto attraverso l’esempio, non tanto dei valori – sempre un po’ retorici-, quanto una nozione sufficientemente chiara di ciò che è reale e ciò che non lo è.
Come ho anticipato, l’intera riflessione di queste pagine su reale e irreale è ispirata tra l’altro a Pasolini, che si portava in tasca, quasi come un amuleto, il saggio di Erich Auerbach sul realismo, e che con l’ombra gigantesca di Dante si è confrontato, senza evitare qualche megalomania, in tutta la sua opera letteraria e cinematografica (si pensi al suo tentativo velleitario di riscrivere la Commedia con La Divina Mimesis e poi in Petrolio ecc.). Non mi avventuro in filologia dantesca. Solo vorrei sottolineare, rileggendo la Commedia, la figura di Dante come classico contemporaneo. Proprio lui, così avverso alla modernità, alla nuova civiltà  degli scambi commerciali e della metropoli, così nostalgico di un ordine medievale sancito dalla chiesa e garantito dall’impero. Eppure sento che in ogni pagina Dante rivolge continuamente un appello urgente al lettore, alla sua capacità di modificarsi e “di convertirsi” a una vita nuova In Guardini leggiamo: “Un pensiero profondo nella Commedia assimila il male alla pesantezza. Diventare cattivi significa pesare”(1). Già, si sprofonda verso il basso, proprio perché chi non dà realtà agli altri poi la realtà la trattiene tutta in sé, in eccesso, e diventa intollerabilmente pesante. Il suo Io è sovrappeso.

da Il bene e gli altri. Dante e un’etica per il nuovo millennio, Filippo La Porta, Bompiani, 2018

(1) Romano Guardini, Dante, Morcelliana, Brescia, 1999, p.284

figura come prefigurazione

L’opposizione figura/verità va scomparendo, poiché sotto la figura si dissimula qualcos’altro: una verità sempre presente e tuttavia avvenire.

da La testa senza il corpo. Il viso e l’invisibile nell’immaginario dell’Occidente, Julia Kristeva, Donzelli Editore, trad. di Alessia Piovanello. pag. 74

altri appunti: pitture rupestri, scene di caccia, raffigurazioni propiziatorie

I am a baby in my universe, I’ll live forever

I am a baby in my universe
I’ll live forever.
I
 am a baby in my universe
I’ll live forever.

Uh, as Otis Phillips Lord,
you’ll live forever
Uh, as Doctor Cardano,
you’ll live forever.

I am a baby somewhere in multiverse,
I am a baby somewhere in multiverse,
I’ll live forever, forever…

 

L’occhio che percepisce e la mano che trasforma l’impressione visiva in disegno sono parte integrante di un dispositivo il cui carattere voyeuristico è stato più volte sottolineato dai critici. L’oggetto a cui mira questo dispositivo è il corpo della donna che, nel caso di Dürer. è un modello passivo, pudicamente coperto, in apparenza addormentato. Insomma, un puro oggetto di contemplazione.

Effetto Sherlock. Storia dello sguardo da Manet a Hitchcock, Victor I. Stoichita, Il Saggiatore, trad. di Cecilia Pirovano

Appunti per Capsula petri n.25

La maschera di Medusa non ha il silenzio appagato e definitivo della testa di morto: al contrario, provoca il grido di morte, l’orrore della disorganizzazione dei tratti, la paura di perdere il contegno. Quello che scopriamo non ci rassomiglia. Il grido sarà allora più vicino al pianto del bambino appena nato che al rantolo del morente. E’ il grido pietrificato di colui che scopre di non essere in realtà un dio bensì un mostro deforme, un nano, un essere da incubo. Il confronto meduseo è un gioco di specchi dal rischio mortale. Offre il godimento di un vedere puro, di un vedere senza sapere cosa si vede, ma la scoperta è ripagata dall’orrore di essere visti: vedendo, si scopre che “sì” è proprio “quello”:(…)

da Medusa, Jean Clair, Abscondita