Category Archives: 13 agosto 1991

Reversibilità del Tempo e terreno incolto (lungo l’Evre)

(…) Dal cielo coperto cade un torpore pesante; non si sente alcuna fonte gorgogliare, alcun uccello cantare. Non è tanto l’orma di un passato favoloso a far pesare sul vallone morto un’imprecisata minaccia, bensì un sentimento di disastro totale rispetto al consueto fluire della vita. Qui, da tempo, non è cambiato nulla; i secoli sono evaporati senza lasciare tracce o conseguenze, come l’ombra delle nubi: ben più che l’aura di un’antica leggenda, questa desolazione di sterpi, è l’immediata sensazione che a esercitarvi un incontrastato dominio sia il sortilegio fondamentale, ossia la reversibilità del Tempo. Quando mi ci trovo fatico sempre a staccarmi da questi ingrati crepacci dell’Ovest, acquarellati senza allegria dal giallo smorto dei ginestroni; ho l’impressione che potrei camminare per tutto il giorno, tra le umide gravine di La Hague che in mezzo a colline gonfie e rotonde come seni precipitano verso il mare color di lillà, tra i burroni di brughiera della montagna limosina, pervasi dal tintinnio dell’acqua e dai sonagli delle mucche, chiazzati di rosa e di un giallo esplosivo come quei tappeti che in Oriente si lasciano ad asciugare, nella più assoluta solitudine, sui guadi rocciosi. In queste lande non coltivate, senza memoria né sentieri, non vengo a cercare una qualche traccia di leggenda; piuttosto, a farsi leggenda anonima e nebbiosa, è la vita stessa, che si scrolla di dosso gli ancoraggi e i riferimenti consueti: il falsario di Ossian, qui, senza saperlo, si ritrova poeta. Là dove non c’è più né strada, né recinto, né diga, la mente si libera anche del morso e della briglia, che qui mai hanno potuto stringere il loro giogo sul pelo selvaggio: il sentimento della vera libertà, per me, non è mai interamente separabile da quello del terreno incolto.

da , di Julien Gracq, L’Orma Editore, trad. di Lorenzo Flabbi

sino a tal punto essa cerca un che di proprio e noto

Davanti ai templi magnifici dei numi, presso gli altari
brucianti incenso, sgozzato cade talora il vitello
versando fuori dal petto un caldo fiotto di sangue:
ma per i pascoli verdi, priva di lui, vagolando
ravvisa in terra la madre l’orme stampate dal piede
bifido, mentre all’intorno scruta con gli occhi ogni luogo,
se possa scorgervi il figlio perduto, ed empie, fermandosi,
de’suoi lamenti la selva frondosa, e spesso ritorna,
trafitta da nostalgia del suo giovenco, alla stalla:
né i salci teneri e l’erbe che la rugiada ravviva,
e i noti fiumi che cadono dall’alte rive le possono
ricrear l’animo e togliere la subitanea ambascia:
e non la vista nei lieti pascoli d’altri vitelli
la può rivolgere ad altro e sollevar dall’ambascia:
sino a tal punto essa cerca un che di proprio e di noto.

da De rerum natura, Libro II, vv. “354-368, Lucrezio, Rizzoli, traduzione di Luca Canali

deliberato ottimismo

Fino alla fine degli anni Settanta avrei avuto il tempo di porre queste domande a mio padre. Ma siccome scoprii le lettere solo dopo la sua morte, e le lessi decenni più tardi, non ne ho avuto mai l’occasione. Dubito che avrebbe accettato di darmi qualche risposta. Non era uso parlare di vicende che lo toccavano nell’intimo, o che avrebbero potuto ferirlo. Il suo deliberato ottimismo e la sua avversione quasi giapponese a importunare gli altri con i propri sentimenti, con un dolore o una perplessità, non gli permettevano di mostrare una tale “debolezza”.

Una volta, poco prima che morisse, lo vidi respirare a fatica alla finestra del salotto. All’improvviso sembrò che non riuscisse più a prendere fiato, e si aggrappò alla maniglia della finestra come se soltanto in tal modo potesse evitare di cadere. Quando gli chiesi se aveva bisogno di qualcosa si rimise bene in piedi, inarcò la schiena, scosse la testa e riprese la conversazione con me dopo una pausa, della cui lunghezza probabilmente non aveva avuto coscienza. Niente, non aveva bisogno di niente, si era soltanto dimenticato di cosa stavamo discutendo.

da Gli amori di mia madre, Peter Schneider, L’Orma Editore, trad. di Paolo Scotini

Una chiamata

“Aspetta” mi disse, “corro fuori a chiamarlo.
Il tempo è bellissimo, ne ha approfittato
per estirpare un po’ di erbacce.”
Così lo vidi
in ginocchio accanto alla fila dei porri,
toccare, ispezionare, separare uno
dall’altro ogni gambo, strappare gentilmente
ogni stelo non rastremato, fragile, senza foglie,
compiaciuto di sentire ogni radice rompersi,
ma dispiaciuto nello stesso tempo…

Ora ascoltavo il grave
ticchettio moltiplicato degli orologi dell’atrio
col telefono incustodito nella quiete
di specchi e pendoli colpiti dal sole…

E mi trovai a pensare: se fossimo al giorno d’oggi,
così la morte convocherebbe Ognuno.

Poi parlò e quasi gli dissi che gli volevo bene.

da The spirit level, Seamus Heaney, Mondadori, trad. di Roberto Mussapi

a mio padre

Neanche con te che ora mi sorridi
con occhi nuovi in sogno
tra il viola delle nubi il giallo
asfissiante dei crisantemi –
lo slancio d’un volo che è finito,
neanche con te troverebbe le ali.
E mentre t’allontani (rimuori)
timido come da una riva ti guardo,
ti sorrido, dopo quanti anni?

da Sguardo dalla finestra d’inverno, Ferruccio Benzoni, All’Insegna del Pesce d’Oro

quanti riflessi fa quest’acqua verde

louis stettner central waiting hall 1958

Quanti riflessi fa quest’acqua verde
come una rete d’oro, una specie di rete
perché è il sole, in realtà, che fa il disegno.
I pesci infatti l’attraversano senza restarci
impigliati dentro. Tante cose passano in altre
e vengon fuori come corna di lumache,
come il filo nell’ago e l’ago nella stoffa, le macchine
dalle gallerie buie che poi torna la luce,
e i treni e il metro quando andiamo a Parigi
certains dimanches.

da Anna e Mélanie, Valentino Ronchi, Lampi di Stampa

Dello stesso

Umana cosa picciol tempo dura
E certissimo detto
Disse il veglio di Chio,
Conforme ebber natura
Le foglie e l’uman seme,
Ma questa voce in petto
Raccolgon pochi. All’inquieta speme,
Figlia di giovin core,
Tutti prestiam ricetto.
Mentre è vermiglio il fiore
Di nostra etade acerba,
L’alma nostra etade acerba,
L’alma vota e superba
Cento dolci pensieri educa invano,
Nè morte aspetta nè vecchiezza; e nulla
Cura di morbi ha l’uom gagliardo e sano
Ma stolto è chi non vede
La giovanezza come ha ratte l’ale,
E siccome alla culla
poco il rogo è lontano.
Tu presso a porre il piede
In sul varco fatale
Della plutonia sede,
Ai presenti diletti
La breve età commetti.

dai Canti di Giacomo Leopardi