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Io non vado agli spassi delle streghe, io sogno di andarci (Pincinella risponde al cappellano)

(tra quelle che crollano e quelle che non cedono mai …) di mezzo, stanno le molte che cedono e confessano con eloquenza e fantasia, come l’Orsola, la Tessadrella, la Giacoma Vinanti… Queste, io dico, non hanno abbandonato ogni volontà di salvezza. La via di salvezza, se c’era, come sappiamo, nel negare e continuare a negare. Senza confessione non si prova stregheria. Ma esse avevano contro il tribunale che premeva con ogni mezzo per la confessione – e resistere poteva significare la morte prima di ogni sentenza. Tale era, nei suoi nudi termini, la situazione. Il raccontare (a differenza del dire: sì, no, che si faceva nel corso della tortura) si faceva da un’altra parte, con comodo e quindi voleva dire un sollievo contro la violenza che era immediatamente come la morte. Così la volontà di salvarsi si combinava con la disperazione di poterlo fare. E ne nascono racconti. Come nella favola di Sherazade, anche qui succede che la donna racconti per salvare la vita.

La Signora del gioco. Episodi di caccia alle streghe , Luisa Muraro, Feltrinelli, Storia, 1976 (pp.144-145)

Mi ricordo

Estendendo la teoria della ricapitolazione di Ernst Haeckel alla memoria e all’autocoscienza, mi consolo nell’immaginare che ciascun individuo e l’universo a cui esso appartiene, stiano fra loro nel più intimo rapporto causale.

Il dono del riconoscimento

Le dottrine politiche che hanno prestato attenzione alle ingiustizie, hanno sottolineato quelle che riguardano l’equa distribuzione dei beni materiali e immateriali, ma non hanno visto questa di cui stiamo parlando. Eppure anche qui è questione di un bene negato o “distribuito” male, che però si produce a un livello e con modalità così elementari da non essere quasi notato. Giacomo Leopardi, tuttavia, vi alludeva quando parlava della “fama” e, adolescente, compiangeva coloro che alla fama non possono aspirare (ma non vedeva il fossato che si stava aprendo fra lui e la sorella che gli era stata compagna carissima di giochi e confidenze).

Oggi quel bene ha ricevuto un nome, “riconoscimento”, non ancora il suo ma bastante a indicarlo poiché ne possiamo parlare. Oggi, come noto, il bisogno di riconoscimento è molto sentito e diffuso. Vi sono analisti che lo considerano un sintomo di malessere collegato all’individualismo moderno. Non sono d’accordo, secondo me il bisogno di riconoscimento ha una radice più profonda e sana, relazionale: esprime la domanda di vedere negli occhi di altri che la propria esistenza ha valore per se stessa, perché, senza questa conferma, diventa difficile che essa ne abbia ai propri occhi.

Per Leopardi, lo sappiamo, il riconoscimento era qualcosa da conquistare nobilmente, compiendo opere grandi e memorabili. Oggigiorno sembra che siano scaduti, il riconoscimento lo dà il successo e lo sancisce, agli occhi delle masse, l’andare in televisione (…).

Ma quali che siano i nomi e i mezzi o i surrogati, come sua origine propria il bene di vedersi riconosciute/i nella propria esistenza singolare e non in funzione di altro o di altri, questo bene si produce nella relazione materna.

La prima cosa da sapere, riflettendo su queste cose, è che nella relazione materna non si dà né giustizia né ingiustizia, non può darsi perché quella relazione precede anche il formarsi di un senso di giustizia. Il riconoscimento materno è un dono allo stato puro, nasce dalla gratificazione di lei che si rispecchia nella creatura cui ha dato la vita. Poi, però, come gli altri beni che hanno origine nella relazione materna, anche questo entra nella vita sociale dove circola, si trasforma, si distribuisce, si vende, si compra, si copia, si accumula, a seconda di quello che chiamiamo ordine simbolico di una certa società, ordine o disordine. E si verifica così l’ingiustizia, che indignò il poeta Franco Fortini (ndr: quando scrisse l’introduzione alle lettere di Paolina Leopardi), della valorizzazione del maschile a danno delle donne… a danno e spese, poiché ora scopriamo che si tratta di un bene di origine femminile.

Non si tratta solo della madre perché, in ogni situazione di scambi fra umani, se una donna è presente, qualcosa di quell’antica relazione rivive e il bene sena nome si riproduce. Ma quello che si offre gratuitamente da parte di lei, consapevole o inconsapevole che ne sia, le viene sottratto per l’uso e consumo maschile senza ricambio, come fosse cosa dovuta. E’ come una sottrazione di sostanza simbolica e non è necessariamente opera di singoli, la cultura stessa essendo predisposta a ciò, come abbiamo visto.

L’infelice eroina della poesia Accanto a un bicchiere di vino (di Wilsawa Szymborska) si è spesa tutta nel produrre e regalare questo bene al suo lui, senza considerare che, dopo il primo inenarrabile colpo di felicità, non le sarebbe tornato indietro niente o quasi niente. Ma quando, invece, capita che lei non produca o non regali, lui arriva a odiarla e la offende, perfino in pubblico: sembra misoginia ma è l’insopportabile delusione di un lattante.

Mi torna in mente un tristissimo fatto di cronaca, il massacro di una giovane africana rimasta senza nome, nella campagna piemontese, a opera del suo altrettanto giovane cliente, uccisa senza nessuna ragione di malattia mentale o soldi, la ragione era proprio questa, come si può ricavare dal racconto che l’omicida, tutto insanguinato, fece agli esterrefatti carabinieri, e cioè che lei aveva riso vedendo le dimensioni del suo pene.

Non è da tutti. L’indicibile fortuna di nascere donna, Luisa Muraro, Carocci, 2011 (pp. 61-62 )

Devo avere davvero poca fiducia in me stessa per essere capace di tutta questa follia

Come meravigliarmi della mia follia del ’58, dopo C.G., i due anni di bulimia, di disperazione, a causa degli uomini. So fin troppo bene che ciò che mi fa scrivere è questa cosa, questa mancata realizzazione dell’amore, senza fine.

In una storia c’è un momento in cui si corre, in cui tutto è davanti a noi, è speranza. Un altro momento in cui tutto scivola nel passato, e quel che è davanti sarà soltanto ripetizione, declino.

da Perdersi, Annie Ernaux, L’Orma Editore, 2023, trad.di Lorenzo Flabbi

La pigrizia

Il lavoro non era più una punizione, ma era diventata l’unica attività. La pigrizia venne eliminata e dimenticata, e con lei le sue storie, le sue benedizioni, il suo splendore, i suoi versi e canti. I suoi luoghi, i letti e i tavoli della pigrizia, c’erano ancora, trasformati in officine, catene di montaggio, amministrazioni. Gli umani avevano fatto del mondo un posto di lavoro. Il lavoro conquistava lo spazio, la pigrizia si sdraiava nel tempo e prendeva se stessa come amante. La pigrizia poteva far male, ma non conosceva la paura. Rendeva uguali i fenomeni, livellava le differenze. Vicino e lontano erano riuniti, il pigro non vedeva un motivo per paragonare il presente con il futuro. Volere una cosa e rifiutare l’altra, preferire una cosa all’altra non gli passava per la mente. La pigrizia poteva giudicare, ma non combatteva, e chi non combatteva non aveva il diritto di vivere.

p.128, Koala, Lukas Bärfuss, L’Orma Editore, 2023, trad.di Margherita Carbonaro

High mountains are a feeling

Mi riparo dal freddo in una casa ripensando ai versi di Byron: “High mountains are a feeling”(1). La percezione è cambiata in pochi secoli: le rocce aguzze erano un ostacolo, un pericolo, e Petrarca prima d’inerpicarsi sul Monte Ventoso era stato scoraggiato da un pastore, che ci era salito trovandovi solo “delusione e fatica, il corpo e le vesti lacerati dai sassi e dai pruni” (2). Per Rousseau, in uno dei romanzi più famosi del Settecento, era già cambiato tutto: in alta montagna “lo spirito è più sereno (…). Le meditazioni assumono lassù non so che carattere grande e sublime”. Quel che ci attira, in questi ammassi di roccia e ghiaccio inospitali, è una visione dell’immaginazione, una ricerca dell’ebbrezza e a volte del rischio, invenzione europea che da due secoli e mezzo contagia tutto il mondo.

pp.122 e 123, Il dio che danza. Viaggi, trance, trasformazioni, Paolo Pecere, Nottetempo, 2021

(1): George Byron, Chide Harold’s Pilgrimage, Canto the Third, 72, Harper Collins, Harper Collins Perennial Classics, Toronto 2014.

(2): Francesco Petrarca, Epistole, IV.1.

(3): Jean-Jacques Rousseau, Giulia o la nuova Eloisa. Lettere di due amanti di una cittadina ai piedi delle Alpi (1971), trad. di P. Bianconi, Rizzoli, Milano 1964, p.89

Il prezzo da pagare

Nel suo articolo “Gli scarabei” l’autore di Se questo è un uomo sostiene con un sottile umorismo che l’invenzione, non poi così innovativa, dei coleotteri, è consistita “soltanto” nell’aver mutato destinazione al paio di ali anteriori. Da ali sono diventate elitre, strumento di protezione inspessitosi nel corso di milioni di anni a difesa delle ali posteriori, “membranose e delicate”. Non servono per fuggire, ma come sistema di trasporto a cui l’insetto ricorre solo per grandi spostamenti: “un po’ come uno di noi che, per prendere un aereo, si adatta ad acquistare il biglietto, a fare il check-in, e a sottoporsi a una lunga attesa in aeroporto”. Così la coccinella, che è un coleottero, “socchiude le elitre, armeggia per districare le ali, infine le distende, solleva le elitre obliquamente, ed inizia il suo volo, non agile né veloce. Pare che se ne debba concludere che per una buona corazzatura si può pagare un prezzo alto”. Una bellissima e attentissima descrizione del loro volo.

da Coleotteri in La strategia della farfalla, Marco Belpoliti, illustrazioni di Giovanna Durì, Guanda, Piccola Biblioteca Guanda, 2016

Vie Cave

Il percorso semisotterraneo delle vie cave può corrispondere a un itinerario sacro, nel quale si sarebbero svolte cerimonie e processioni rituali, sul tipo di quelle officiate nei Misteri dionisiaci e della Grande Dea.

La processione doveva servire a drammatizzare e a celebrare il mistero della rinascita cosmica e annuale della vita, in coincidenza con le date equinoziali, all’inizio della primavera e alla fine dell’estate. I misteri eleusini si svolgevano in due fasi: i “piccoli” Misteri di febbraio-marzo e i “grandi” Misteri di metà settembre.

La tradizionale “torciata” di Pitigliano, festa pagana di remotissime origini, ha luogo ancora oggi il 19 marzo, giorno prossimo all’equinozio di primavera. La processione fiammeggiante dei pitiglianesi, che portano a spalla grandi torce fatte di canne di fiume, parte dalla necropoli etrusca di poggio S.Giuseppe, attraversa la cava omonima e raggiunge il paese dopo aver passato una seconda via cava (di Poggio Cane). Si ritiene comunemente che questa sia una celebrazione antica, per propiziare la primavera, anche in connessione con riti agrari e della fertilità. Considerato l’ambiente prettamente funerario delle vie cave, indicato dalla contigua presenza di tombe e necropoli, è anche plausibile che questi grandi percorsi fossero originariamente ideati in seguito ad un sincretismo tra culti misterici e culti degli antenati e dell’Oltretomba.

Oltre a placare e ad onorare le anime degli antenati, questo tipo di ritualità mirava a celebrare il culto delle divinità infere: Aita (Ade-Dioniso), Phersipnai (Persefone), Sethlans o Velcha (Efesto o Vulcano), e certamente anche quel misterioso Veltha il cui nome è inciso a grandi lettere nel Cavone di Sovana.

D’altra parte, vista l’attestata funzione di spazio rituale pertinente al “dromos” (il corridoio funebre), è lecito ritenere che anche le vie cave, che altro non sono che enormi “dromoi”, avessero la stessa funzione.

Percorrerle equivaleva a entrare in risonanza con le forze della terra e al tempo stesso effettuare un rito di passaggio: l’attraversamento del dedalo che è la vita stessa, per raggiungere l’atemporale e sacra sfera delle anime rigenerate e immortali.

da Le Vie Cave Etrusche. I ciclopici percorsi sacri di Sovana, Sorano e Pitigliano, Giovanni Feo, Laurum Editrice, 2011