Reversibilità del Tempo e terreno incolto (lungo l’Evre)

(…) Dal cielo coperto cade un torpore pesante; non si sente alcuna fonte gorgogliare, alcun uccello cantare. Non è tanto l’orma di un passato favoloso a far pesare sul vallone morto un’imprecisata minaccia, bensì un sentimento di disastro totale rispetto al consueto fluire della vita. Qui, da tempo, non è cambiato nulla; i secoli sono evaporati senza lasciare tracce o conseguenze, come l’ombra delle nubi: ben più che l’aura di un’antica leggenda, questa desolazione di sterpi, è l’immediata sensazione che a esercitarvi un incontrastato dominio sia il sortilegio fondamentale, ossia la reversibilità del Tempo. Quando mi ci trovo fatico sempre a staccarmi da questi ingrati crepacci dell’Ovest, acquarellati senza allegria dal giallo smorto dei ginestroni; ho l’impressione che potrei camminare per tutto il giorno, tra le umide gravine di La Hague che in mezzo a colline gonfie e rotonde come seni precipitano verso il mare color di lillà, tra i burroni di brughiera della montagna limosina, pervasi dal tintinnio dell’acqua e dai sonagli delle mucche, chiazzati di rosa e di un giallo esplosivo come quei tappeti che in Oriente si lasciano ad asciugare, nella più assoluta solitudine, sui guadi rocciosi. In queste lande non coltivate, senza memoria né sentieri, non vengo a cercare una qualche traccia di leggenda; piuttosto, a farsi leggenda anonima e nebbiosa, è la vita stessa, che si scrolla di dosso gli ancoraggi e i riferimenti consueti: il falsario di Ossian, qui, senza saperlo, si ritrova poeta. Là dove non c’è più né strada, né recinto, né diga, la mente si libera anche del morso e della briglia, che qui mai hanno potuto stringere il loro giogo sul pelo selvaggio: il sentimento della vera libertà, per me, non è mai interamente separabile da quello del terreno incolto.

da , di Julien Gracq, L’Orma Editore, trad. di Lorenzo Flabbi

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