Do you want to come for a little walk? Life is so sweet…

Quale bella cosa la pietà, in un essere vivente. Quella pietà non nata da debolezza o timore di castighi o comunque cupo e remoto sospetto di una legge punitiva, ma soltanto dalla valutazione e condanna degli atti che possono rendere infelice un’altra creatura – soprattutto se indifesa e affidata al nostro potere! Trovare qualcuno che non goda intimamente, da tutti inosservato, del vedere un altro essere caduto o dolorante; che senta in sé un fremito di rivolta a quello spettacolo, e desideri porvi un riparo – non credo esista nient’altro, sulla terra che meriti l’attributo di divino.

Ma, di solito, intelligenza da una parte e stanchezza dall’altra, trasformano il cuore dell’uomo in una specie di tumore, una escrescenza dolce e velenosa, e il suo cervello in un labirinto di personalità. In quale parte di un essere così rovinato da esperienze e delusioni, avventi per chiave se stesso e i propri esclusivi interessi, vi potrà essere posto per la pietà? Guai a quelli la cui vita dipende da un altro, che hanno scelto una madre senza riflettervi, che, in altre parole, si sono consegnati a una guida entro la cui difesa irreprensibile è nascosto uno squisito assassino. Essi s’inoltrano con lui tra i viali e le aiuole di un giardino di momento in momento più cupo; né sanno perché scompaia o sanguini il sole; né perché alle rose e ai gigli, che da principio tappezzavano l’erba, si sostituiscano orribili rovi, e ai rami degli alberi pendano, al posto dei graziosi uccelli, immobili serpi; né perché le dolci parole dell’essere che li accompagna acquistino, a mano a mano che essi si allontanano nel bosco, un accento crudele, un senso spaventevole.

Legati dalla sua voce, come nessuna sensibile e calma, guidati dal suo sguardo, come pochi sinistro e tenero, tremando e balbettando inquiete parole di dubbio, di gratitudine, di debolezza e di orrore, essi s’inoltrano al suo braccio verso la Casa che appare in fondo a quell’ingorgo di rovi, in quelle tenebre misteriosamente illuminate; e finalmente scorgono – ma non possono più ribellarsi, fuggire, lasciare quella mano -, scorgono al posto della tavola, del letto, del fuoco, d’ogni cosa più teneramente sperata, il patibolo solitario che li aspettava, e a cui l’essere amato li accompagnerà. Ed essi lo saliranno, dopo tanta miseria, tanta inquietudine, tante lagrime, lo saliranno docilmente, conquistati dal bacio ch’egli avrà posato prima con un tenue sospiro, sulla loro guancia.

Forse, al momento in cui la corda arrosserà la gola del condannato, una lagrima brillerà nell’occhio del loro meraviglioso amico; ed egli proverà finalmente una inquinata pietà.

da Supplizio, in L’Infanta sepolta, Anna Maria Ortese, Adelphi

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