Il risveglio di Don Chisciotte in Russia

“Compagno Kopenkin” proseguì Dvanov. “Sai che ti dico? Avrei voglia di andare in città. Aspettami qui, ci metterò poco. Per ora fai da presidente del soviet per non annoiarti, i contadini saranno d’accordo. Vedi anche tu come sono…”

“Tutto lì?” si rallegrò l’altro. “Vacci pure, fammi il piacere, ti aspetterò anche un anno. E farò da presidente, questo distretto va stuzzicato.”

Quella sera si abbracciarono in mezzo alla strada e tutti e due sentirono un irragionevole pudore. La notte stessa Dvanov avrebbe preso il treno.

Kopenkin rimase a lungo fermo sulla strada, perduto ormai di vista l’amico; poi tornò al soviet e pianse nel locale deserto. Tutta quella notte stette in silenzio senza dormire, il cuore spossato. Il villaggio intorno non si muoveva, non si faceva notare neppure con un suono, quasi avesse rinunziato per sempre al proprio destino che si trascinava avanti, spiacevole. Solo di tanto in tanto i salici spogli frusciavano nel cortile deserto del soviet rurale, permettendo al tempo di procedere verso la primavera.

Kopenkin osservava le tenebre agitarsi fuori dalla finestra. A volte erano percorse da una pallida luce appassita odorante di umidità e di noia del nuovo giorno desolato. Forse era il mattino vicino o forse uno smorto raggio errante della luna. Nel lungo silenzio della notte l’uomo andava insensibilmente allentando la tensione, quasi rinfrescato dalla solitudine. A poco a poco nasceva nella coscienza una flebile luce di dubbio e di compassione per se stesso. Rivolse la memoria a Rosa Luxemburg, ma vide solo una donna smagrita in una bara, simile ad una puerpera estenuata. Non sorse in lui la tenera passione che gli dava al cuore un trasparente leggero vigore.

Stupito e sgomento egli si andò avvolgendo di firmamento notturno e di pluriennale stanchezza. Non si vedeva nel sogno e se si fosse visto avrebbe preso paura: sulla panca dormiva un vecchio esausto con profonde rughe da martire su un viso estraneo, un uomo che in tutta la sua vita non aveva fatto il minimo bene a se stesso.

da Il villaggio della nuova vita, Andreij Platonov, Mondadori, trad. di Maria Olsufieva

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