The den

Il mio senso di alienazione era aggravato dagli effetti persistenti di una perdita avvenuta in mia assenza: quella del mio rifugio privato. Tutti gli animali hanno bisogno di una tana in cui andare e nascondersi di tanto in tanto. Mentre ero in prigione, col trascorrere dei giorni, mi resi conto che non vedevo l’ora, una volta scarcerato, di rintanarmi nel mio rifugio personale. L’isolamento aveva trasformato ciò che una volta era semplice abitudine in un bisogno viscerale.
Il mio rifugio non c’era più. Si trattava di un garage che avevo trasformato personalmente ma di cui rimaneva solo il guscio, cosa che me ne faceva prendere distanza ancora di più. Una visita particolare, o forse una serie di visite, lo avevano trasformato in un magazzino qualsiasi. Non avrei mai pensato che nel tempo si potesse provare tanta empatica per una collezione di opere d’arte, che le si potesse attribuire un’aura di inviolabilità. Eppure era così. Senza quel luogo di fuga, ero diventato irritabile, impaziente e irrequieto; me ne accorgevo da solo, senza bisogno di occhiatacce o di proteste. La distanza fisica da quell’ambiente, di per sé estraniante, sarebbe stata solo una questione di tempo.
Uscito di prigione, andavo scoprendo molto di me stesso. Mentre ero in cella, mi ero convinto che la condizione della detenzione, il cui ambiente fisico è imposto, di certo non scelto, immunizza i detenuti con germi in grado di resistere a qualsiasi futuro senso di privazione. Mi ero convinto di essere indifferente al senso di proprietà, di qualsiasi tipo di proprietà si trattasse. Tuttavia, appresi a poco a poco che la condizione di libertà dà vita a desideri e aspettative, tra cui la voglia di uno spazio abituale, di un santuario, di un luogo fisico, palpabile e intimo, non poi così diverso da quello della cella di isolamento, con la differenza, naturalmente, che si tratta di un posto di propria scelta e designazione. Già alienato dall’ambiente pubblico, adesso mi ritrovavo privato di un’intimità che avevo tanto agognato, un’intimità in cui avrei potuto trovare rifugio, isolandomi dal mondo esterno, e da cui avrei potuto tentare di riconquistare fluidità nel processo creativo.
Può darsi che se il mio matrimonio, brevemente resuscitato dalle tribolazioni condivise e dalle emozioni del ricontrarsi, avesse tenuto, il palpito dell’alienazione sarebbe stato attutito. Tuttavia i contrasti che prima della mia incarcerazione avevano trasformato il mio matrimonio in un mero sforzo di volontà riaffiorarono in un baleno, intensificando in me il desiderio di una comoda fuga quotidiana, di un riparo familiare e accogliente. Andavo dunque a rifugiarmi nel garage trasformato, ma aveva perso l’aura, l’identità che lo contraddistingueva, in cui prima riuscivo a ritrovare me stesso.

da Sul far del giorno, Wole Soyinka, La nave di Teseo, trad. di Alessandra Di Maio

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