In una di quelle fiere di piazza dove la prostituzione e la miseria si drappeggiano di sete e di meraviglioso; dentro un baraccone dove i mestieri erano rappresentati da fantocci meccanici, m’accadde di assistere al più terrificante spettacolo.
C’era là dentro il sarto che tagliava con forbici di piombo; la lavandaia che sciacquava i panni in un’invisibile acqua; il cuoco che ammaniva vivande di cartone…
Come un alveare mi viveva intorno quel popolo d’automi; e, divertito, io passavo da un personaggio all’altro, godendomi quelle facce convinte, quei gesti risoluti; quando, avendo fatto due o tre volte il giro del baraccone, il sospetto mi nacque che nella creazione dei suoi fantocci l’artista avesse messo un’intenzione beffarda.
E poiché il sarto non avrebbe finito mai di tagliare la sua pezza sempre intera né il cuoco di compiere i suoi gesti da epilettico, da tutta quella inutile attività una specie di nausea mi venne, un malessere…
Finché m’accorsi d’aver sottocchio l’immagine della vita.
da Scampoli I, L’opera in versi e in prosa, Camillo Sbarbaro, Garzanti/Scheiwiller, 1985, a cura di Gina Lagorio e Vanni Scheiwiller