deliberato ottimismo

Fino alla fine degli anni Settanta avrei avuto il tempo di porre queste domande a mio padre. Ma siccome scoprii le lettere solo dopo la sua morte, e le lessi decenni più tardi, non ne ho avuto mai l’occasione. Dubito che avrebbe accettato di darmi qualche risposta. Non era uso parlare di vicende che lo toccavano nell’intimo, o che avrebbero potuto ferirlo. Il suo deliberato ottimismo e la sua avversione quasi giapponese a importunare gli altri con i propri sentimenti, con un dolore o una perplessità, non gli permettevano di mostrare una tale “debolezza”.

Una volta, poco prima che morisse, lo vidi respirare a fatica alla finestra del salotto. All’improvviso sembrò che non riuscisse più a prendere fiato, e si aggrappò alla maniglia della finestra come se soltanto in tal modo potesse evitare di cadere. Quando gli chiesi se aveva bisogno di qualcosa si rimise bene in piedi, inarcò la schiena, scosse la testa e riprese la conversazione con me dopo una pausa, della cui lunghezza probabilmente non aveva avuto coscienza. Niente, non aveva bisogno di niente, si era soltanto dimenticato di cosa stavamo discutendo.

da Gli amori di mia madre, Peter Schneider, L’Orma Editore, trad. di Paolo Scotini

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