tu che mi guardi, che mi parli

è come se ci fosse nell’attività del pittore un’urgenza che supera tutte le altre. Egli è là, forte o debole nella vita, ma sovrano incontestato nella sua ruminazione del mondo, senz’altra “tecnica” tranne quella che i suoi occhi e le sue mani conquistano a forza di vedere, a forza di dipingere, accanendosi a trarre da questo mondo, in cui risuonano gli scandali e le glorie della storia, delle tele, che aggiungeranno ben poco alle collere e alle speranze degli uomini, e nessuno trova niente da ridire.

(…)

Il mio movimento è il proseguimento naturale e la maturazione di una visione. Io dico che una cosa è mossa, ma il mio corpo si muove, il mio movimento si dispiega; non avviene nell’ignoranza di sé, non è cieco a se stesso, s’irradia da un sé…

(…)

Il pittore vive nella fascinazione. Le sue azioni più proprie – quei gesti, quei segni di cui egli solo è capace, e che saranno rivelazioni per gli altri, che non hanno le sue medesime mancanze – gli sembrano emanare dalle cose stesse, come il disegno delle costellazioni. Tra lui e il visibile, i ruoli inevitabilmente si invertono. Ecco perché tanti pittori hanno detto che le cose li guardavano, e André Marchant, dopo Klee: “Più volte, in una foresta, ho sentito che non ero io a guardare la foresta. Ho sentito, certi giorni, che erano gli alberi che mi guardavano, che mi parlavano… Io ero là, in ascolto… Credo che il pittore debba lasciarsi penetrare dall’universo, e non volerlo penetrare… Attendo di essere interiormente sommerso, sepolto. Forse dipingo per nascere.”

(…)

Essenza ed esistenza, immaginario e reale, visibile e invisibile: la pittura confonde tutte le nostre categorie, dispiegando il suo universo onirico di essenze carnali, di rassomiglianze efficaci, di significazioni mute.

da L’occhio e lo spirito, Maurice Merleau-Ponty, SE Studio Editoriale, trad.di Anna Sordini

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