cervellino d’uccello

mario giacomelli 7

Con vasti occhi innocenti di pinguino,
tre merli poliglotti, grossi ma novellini,
stanno in fila
sotto il salice glauco,
un’ala contro l’altra, teneri e solenni,
fino a quando avvistano la madre,
che ormai non sembra più grossa di loro
e che arriva portando
qualcosa che potrà a malapena
saziare uno dei tre.

Lei si dirige verso lo stridio
acuto e intermittente, uguale al suono di balestre rotte,
che sale su dalle tre forme simili,
macchiettate da miti
occhi di uccello; e se mai dal becco
di uno dei tre
sfugge lo scarabeo
ancora vivo,
lei lo raccatta e lo ricaccia
dentro.

Stando nell’ombra fino a quando indossano
le loro cappe dall’ordito fitto,
pallide e lisce, simili alle foglie
del salice, i tre spiegano la cosa
e le ali, mostrando ad uno ad uno
la modesta
striscia bianca che corre per il lungo
sopra la coda e per traverso
sotto ogni ala;
e già la fisarmonica

si è richiusa. Che deliziosa nota,
con rapidi, inattese eco di flauto
zampillanti dall’ugola
dell’ingegnoso
uccello adulto, torna alla memoria
dalla remota
aria torpida e assolata,
quando non c’era
ancora la nidiata? Come aspra
si è fatta ora la voce dell’uccello.

Un gatto bianco e nero li ha osservati,
e va strisciando adagio lungo il tronco
verso il grazioso trio.
Non avvezzi a vederlo
i tre cedono il campo – è un problema
nuovo, imbarazzante.
Un piede ciondolante che ha mancato
la presa si solleva
e trova il ramo sul quale progettava
di posarsi. Ma la madre

si tuffa come un dardo, fatta ardita
da ciò che gela il sangue, compensata
solo dalla speranza – di altre pene-
ché nulla può riempire quelle bocche
pigolanti e fameliche; e si getta
in un duello mortale e quasi uccide
col becco a baionetta
e con ali feroci
il gatto intellettuale
che sa strisciare con tanta cautela.

da Le poesie, Marianne Moore, Adelphi

 duilio cambelotti bambini

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