Sono poeta – che m’importa,
in sé, della poesia! Se in cielo salisse
la stella del notturno
fiume, non sarebbe bello.
Il tempo scorre lentamente, io non cerco
il latte delle favole, mi disseto
al mondo reale, con spuma
di cielo all’orlo.
Bello bagnarsi alla fonte,
la quiete e il tremolio
si fondono, e si alza sulla spuma
un dolce e saggio chiaccherare.
Gli altri poeti – che me ne importa?-
su fino al petto lordandosi, con false
immagini, con alcooli, l’ebbrezza
fingano, io vado oltre
questa moderna osteria,
fino alla ragione e più in là;
con libera mente non recito la parte
sciocca e volgare del servo.
Possa tu mangiare, bere, dormire, far l’amore!
Misurati con l’universo!
Nemmeno a denti stretti io servo
potenze vili che ci opprimono.
Non c’è compromesso – devo essere felice! Oppure
chiunque potrà oltraggiarmi, rosse
macchie lo denunceranno, la febbre
si berrà i miei umori.
Non chiudo la bocca accusatrice,
mi appello alla ragione. Mi guarda
bevendo il mio secolo, mi pensa
arando il contadino, il corpo
dell’operaio tra due rigidi gesti
mi intuisce, e la sera
presso il cinema mi attende
il ragazzo malvestito.
E dove a schiera inseguono i teppisti
l’ordine delle mie poesie
avanzano fraterni carri armati
a diffondere rombando questi versi.
Ancora non è adulto l’uomo, mi dico. Ma
così si immagina, per questo è smisurato.
L’accompagnino i suoi due genitori
con lo sguardo: l’amore e la ragione.
da Gridiamo a Dio, Attila Jozsef, Guanda