la fioritura a Castelluccio di Norcia
Sollevando un angolo del pesante velo dell’abitudine (l’abitudine instupidente che per tutto il corso della vita ci nasconde pressoché l’intero universo e che in una notte profonda, lasciando immutate le etichette, sostituisce ai veleni più pericolosi o più inebrianti della vita qualcosa di anodino che non produce alcuna delizia), essi tornavano a me come il primo giorno, con quella novità fresca e penetrante di una stagione che riappare, di un cambiamento nella tranquilla monotonia delle nostre ore, che anche nel campo dei piaceri-se saliamo in vettura nella prima bella giornata di primavera, o usciamo di casa all’alba-ci fanno avvertire le nostre insignificanti azioni con un’esaltazione lucida grazie alla quale quell’intenso minuto prevale sul totale dei giorni anteriori. I vecchi giorni coprono a poco a poco quelli che li hanno preceduti, e vengono a loro volta sepolti da quelli che li seguono. Ma ciascuno dei giorni passati è rimasto depositato in noi come un’immensa biblioteca dove dei libri più antichi c’è un esemplare di cui nessuno, probabilmente, farà mai richiesta. E tuttavia basta che questo giorno, attraverso la traslucidità delle epoche successive, risalga alla superficie e si distenda nel nostro essere, coprendolo per intero, perché per un istante i nomi riprendano il loro significato, gli esseri il loro vecchio volto e noi il nostro animo d’allora, e sentiamo con una sofferenza vaga, ma fattasi sopportabile e destinata a non durare, i problemi da molto tempo divenuti irresolubili che allora ci angosciavano tanto. Il nostro io è fatto dalla sovrapposizione dei nostri stati successivi. Ma questa sovrapposizione non è immutabile come la stratificazione di una montagna. Incessanti sollevamenti fanno affiorare alla superficie strati più antichi.
da Alla ricerca del tempo perduto – Albertine scomparsa, Marcel Proust, Mondadori, trad.di Giovanni Raboni