La morte?
La morte è come l’ombra
che il corpo proietta
sulla nostra coscienza
di essere.
Joe Bousquet, da Isel, Mimesi Edizioni, a cura di Antonio di Gennaro, trad.di Arlindo Hank Toska
How Easy is to Nearly Die, di Hanif Kureishi
La morte?
La morte è come l’ombra
che il corpo proietta
sulla nostra coscienza
di essere.
Joe Bousquet, da Isel, Mimesi Edizioni, a cura di Antonio di Gennaro, trad.di Arlindo Hank Toska
How Easy is to Nearly Die, di Hanif Kureishi
La tieni tra le braccia.
Dormi, e la sogni,
e sai che è un sogno
ciò che di lei vedi.
E il cuore si squarcia,
trema di fede.
Soltanto una cosa
a lei proposta
ti dà garanzie
che ti vorrà sveglio.
Sa che è un sogno
ciò che di lei le dici,
ma che, sotto
il sogno, è lei
che tieni tra le braccia.
da Teoria dei corpi, Gabriel Ferrater, Occam Editore, traduzione di Amaranta Sbardella
(…) Dal cielo coperto cade un torpore pesante; non si sente alcuna fonte gorgogliare, alcun uccello cantare. Non è tanto l’orma di un passato favoloso a far pesare sul vallone morto un’imprecisata minaccia, bensì un sentimento di disastro totale rispetto al consueto fluire della vita. Qui, da tempo, non è cambiato nulla; i secoli sono evaporati senza lasciare tracce o conseguenze, come l’ombra delle nubi: ben più che l’aura di un’antica leggenda, questa desolazione di sterpi, è l’immediata sensazione che a esercitarvi un incontrastato dominio sia il sortilegio fondamentale, ossia la reversibilità del Tempo. Quando mi ci trovo fatico sempre a staccarmi da questi ingrati crepacci dell’Ovest, acquarellati senza allegria dal giallo smorto dei ginestroni; ho l’impressione che potrei camminare per tutto il giorno, tra le umide gravine di La Hague che in mezzo a colline gonfie e rotonde come seni precipitano verso il mare color di lillà, tra i burroni di brughiera della montagna limosina, pervasi dal tintinnio dell’acqua e dai sonagli delle mucche, chiazzati di rosa e di un giallo esplosivo come quei tappeti che in Oriente si lasciano ad asciugare, nella più assoluta solitudine, sui guadi rocciosi. In queste lande non coltivate, senza memoria né sentieri, non vengo a cercare una qualche traccia di leggenda; piuttosto, a farsi leggenda anonima e nebbiosa, è la vita stessa, che si scrolla di dosso gli ancoraggi e i riferimenti consueti: il falsario di Ossian, qui, senza saperlo, si ritrova poeta. Là dove non c’è più né strada, né recinto, né diga, la mente si libera anche del morso e della briglia, che qui mai hanno potuto stringere il loro giogo sul pelo selvaggio: il sentimento della vera libertà, per me, non è mai interamente separabile da quello del terreno incolto.
da , di Julien Gracq, L’Orma Editore, trad. di Lorenzo Flabbi
(…) (Antonello da Messina) si limita a dotare la forma, soprattutto la forma umana di volumi ideali che tendono in sostanza alla sfera e al cilindro, senza naturalmente cadere in coincidenze prettamente geometriche. Mi domanderete ancora che bellezza ci sia nelle forme semplici e metriche? In tal caso ritornate alle idee sulla forma prospettica o sull’architettura, o sciogliete questo problema: Perché un uomo malauguratamente calvo carezza la sua lustre e globosa calvizie? Per riparare, vi dico seriamente, alla sventura di carattere pratico di mancare di un elemento utile come è la capigliatura, con piacere inizialmente estetico di sentire che la propria calvizie si avvia verso la forma nobile della sfera. Trovatemi un’altra spiegazione di questo fatto o dell’altro per cui ci piace accarezzare un braccio tornito per esempio.
p.116, Breve ma veridica storia della pittura italiana, Roberto Longhi, Abscondita, Aesthetica, Con uno scritto di Cesare Garboli, 2013
Quindi, i gomiti affaccendati di Agafia che innamorano Oblomov…
Ma prima un seno e il viso di neonata/o.
Bowa-oo, my iori iori!
“Il derubato che sorride, ruba qualcosa al ladro” Emily Dickinson cita questo passo dell’Otello “He that is robb’d, not wanting what is stolen,/Let him not know’t, and he’s not robb’d at all”.
Prosegue, Elèmire Zolla, nella sua introduzione a Selected Poems and Letters per Ugo Mursia Editore (1961):
perché non cede a costui la propria anima; astenendosi dal turbamento, dal risentimento egli evita di essere travolto, di formare con il ladro una catena di effetti malvagi. Non è, questa, la codardia dello schiavo che ha buttato le armi, bensì il sentimento di chi si pone sopra la contesa, anche se vi partecipa. Nel furto, la vittima deve saper vedere il rapporto, non soltanto il ladro, e astenersi dal rancore: considerare il ladro come il divino limite, la necessità che definisce lui in quel momento. Se questa è rassegnazione, è come dice Emily, la rassegnazione di Brabanzio, cioè del padre di Desdemona, il quale, alle strette, dovendo consegnare la figlia al Moro esclama:
I here do give thee that, with all my heart,
Which, but thou hast already, with all my heart
I would keep from thee.
Cedo “con tutto il cuore” ciò che, se tu già non l’avessi, “con tutto il cuore”, ti vieterei, dice Brabanzio; la sua è la forza che Emily trova prescritta con più spento vigore da Emerson nel saggio Fate. Bisogna liberarsi dal giro della fortuna, vederla come è in realtà: ruota di tortura, ruota infuocata, per evaderne infine: questa la lezione che Emily trae da King Lear (come da The Tempest, Henry VIII, Richard II): acquistare la saggezza di Cordelia è il suo proposito.
Suleman, ancora torni alla mia porta: non ti rassegni alla mia non belligeranza, alla mia comprensione.
Sono altrove, sono Isegbwe.
Cineforum per richiedenti asilo e titolari di protezione
Quando, più concretamente, l’atto di vedere è presentato come un atto di violenza assistita e, soprattutto, di conversione dei corpi in oggetti, allora gli spettatori diventano protagonisti di un’antropomorfizzazione al contrario. Qui coloro che prima erano umani hanno perso la loro umanità, e la stessa messa in scena degli spettatori all’interno dell’inquadratura rafforza la violenza di una disumanizzazione che fa più che rendere impossibile la categoria dell’umano.[1]
Il voyeurismo di chi accetta di farsi spettatore dell’omicidio di George Floyd o di Alika Ogorchukwu, lo sguardo caritatevole di chi versa qualche spicciolo al richiedente asilo fuori da un supermercato, quello giudicante il grado di onestà o criminalità in base al fototipo, quello rapace di chi erotizza un corpo, non solo hanno in comune il fatto di essere il risultato di una colonizzazione dell’immaginario collettivo, ma anche l’effetto di condizionare lo sguardo su sé dello spettatore/della spettatrice che coincide con il corpo reso oggetto, inoculando la morbosa sensazione particolare, questa doppia coscienza, questo senso di guardare sempre se stessi attraverso gli occhi degli altri, misurando la propria anima con il nastro del mondo che guarda con divertito disprezzo e pietà.[2]
La scelta di proiettare film che smentiscono questo sguardo, che riducono al silenzio questa doppia coscienza, è ciò che si intende con Decolonizzazione del cinema.
Dal 2017 a oggi il gruppo di Orientamento alla Formazione e al Lavoro del Progetto Pensare Migrante ha redatto 520 curricula, di richiedenti asilo e titolari di una protezione, definendo una road map delle competenze, delle peculiarità, dei sogni e delle esperienze individuali. Il 43% di queste persone, seppure con un regolare contratto, comunque sta svolgendo un lavoro che svaluta le proprie competenze, la formazione e le esperienze maturate nel proprio paese di origine: anni di abusi (burocratici, socio-lavorativi) quasi sempre approdano a un’autosvalutazione, che favorisce la segregazione sociale: tutto questo è accettato anche a causa della colonizzazione della camera (foto o video).
Alle 520 persone, tramite email, sarà richiesto di rispondere alle seguenti due domande:
In una riunione collettiva tra i soci dell’Associazione ColtivAzione, si discuteranno i risultati delle domande e da questi saranno scelti i 24 film.
La fotografa Fabiana Sartini documenterà l’esperienza e alla fine della rassegna, a Roma presso la Libreria Libri Necessari, sarà allestita una mostra aperta al pubblico.
Chi avrà partecipato al progetto:
Si crede che la ricaduta positiva di questa esperienza avrà risonanza e durata a lungo termine, a beneficio della società.
Le spese che andranno affrontante sono quelle per:
Per la realizzazione del progetto per la durata di un anno, sono necessari 11000 euro.
Indipendentemente dall’esito della raccolta fondi, il progetto avrà luogo, seppure con una minore durata o un minor numero di beneficiari/e.
Per donare:
oppure
Associazione Coltivazione
IBAN: IT09A0538703209000003168237
indicando nella causale: Decolonising the Cinema
[1] Samuels, 2006, citato a pag.51 da Mark Sealy in Decolonising the Camera: Photography in Racial Time, Lawrence & Wishart, London 2019.
[2] Du Bois & Gibson, 1996, citato a pag.156 da Mark Sealy in Decolonising the Camera: Photography in Racial Time, Lawrence & Wishart, London 2019.
Photo: Fabiana Sartini
Nel sufismo più elevato dell’Islam l’ “esperienza unitiva” non consiste, per l’ego finito, nella cancellazione della propria identità attraverso una sorta di riassorbimento dell’Ego infinito: è piuttosto l’infinito che passa nella stretta piena d’amore finito.
Iqbal a pag.258 de I mistici dell’Islam. Antologia del sufismo, a cura di Eva de Vitray-Meyerovitch, Guanda, Biblioteca della Fenice, 1991, I edizione, trad.di Stefano Tubino